"Caruso non è un cantante, non è una voce, è un miracolo. Non vi sarà altro Caruso per due o tre secoli. Forse mai più." Così affermò nel 1905, il critico musicale inglese Thomas Burke, recensendo una recita di Bohème al Covent Garden di Londra, cantata da Caruso nelle vesti di Rodolfo.
Paolo Esposito è noto a Sorrento per il suo culto nel campo della gastonomia e per la sua passione verso il grande tenore Enrico Caruso.
Proprietario del ristorante dal 1987, lo intitolò "Caruso" con l'intento di coniugare il nome del tenore a quello della buona cucina napoletana ed internazionale. Nel 1998 Paolo Esposito ebbe l'opportunità di conoscere il noto studioso e biografo di Caruso, Guido D'Onofrio di Foggia, caro amico del figlio del mitico tenore, Enrico Jr., e collaboratore di questi alla stesura della biografia paterna "My father and my family" pubblicata negli USA nel 1990.
Si consolidò subito tra Esposito e D'Onofrio una profonda amicizia e questo connubio fece nascere ad entrambi l'idea di fondare un piccolo museo carusiano nell'interno del ristorante che, grazie alla donazione del tutto disinteressata di Guido D'Onofrio nei numerosissimi cimeli presenti nel locale, è denominato "Ristorante Museo Caruso" ed è punto di attrazione di molti appassionati del più grande fenomeno vocale della storia di palcoscenico.
Non a caso nel 1905, il critico musicale inglese Thomas Burke, recensendo una recita di “Bohème al Covent Garden di Londra, cantata da Caruso nelle vesti di Rodolfo, così affermò: “Caruso non è un cantante, non è una voce, è un miracolo. Non vi sarà altro Caruso per due o tre secoli. Forse mai più!”
Successivamente nel 1973, nel centenario della nascita del grande tenore, l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Leone, ebbe a scrivere: “Caruso non solo fu la più grande voce lirica del suo tempo, che suscitò entusiasmo e commozione universali, ma divenne anche il simbolo della disperata volontà di esprimere le profonde capacità d’intelligenza, di laboriosità e di ispirazione artistica delle genti meridionali”. Queste bellissime parole, restano infatti la sintesi di un fenomeno vocale che non si è mai più ripetuto e che molto difficilmente avrà eguali in futuro.Oltre ottant’anni trascorsi dalla sua morte avrebbero dovuto ridimensionarlo, ma non è stato così.
Enrico caruso nacque a napoli il 25 febbraio 1873 dai coniugi Marcellino e Anna Baldini, originari di Piedimonte d’Alife in provincia di Caserta, genitori più che modesti e votati all’indigenza. Meccanico era il padre, alle dipendenze delle Officine Meuricoffre, meccanico sarebbe diventato anche lui, ed eccolo apprendista nella fonderia di Salvatore De Luca all’Arenaccia, che lasciò dopo non molto per mettersi a lavorare con la ditta Palmieri, costruttrice di fontane in ferro.
Terzo di sette figli (e non diciottesimo di ventuno come diceva la leggenda recentemente smentita dallo studioso carusiano Guido D’Onofrio di Foggia a seguito di difficili ed importanti ricerche), dotato di una voce di tenore rotonda e stentorea, studiò canto presso il maestro Guglielmo Vergine di Napoli. I progressi furono subito notevoli e consentirono al giovane tenore ventiduenne di ottenere la prima scrittura ed il debutto al Teatro Nuovo di Napoli il 15 marzo 1895 nell’opera “L’amico Francesco” del maestro Domenico Morelli.
Seguirono poi scritture in vari importanti teatri di provincia, tra cui Caserta e Salerno, prima di debuttare in quelli più famosi.
Ma la travolgente carriera del tenore nella celebrità ebbe inizio la sera del 17 novembre 1898 allorquando Caruso, prescelto dal maestro Umberto Giordano, interpretò il primo Loris nell’opera “Fedora” al teatro Lirico di Milano. Fu tanto l’entusiasmo di pubblico e critica che dopo quella serata un importante quotidiano milanese così intitolò: “Caruso cantò la Fedora e la fè..d’oro”
Da quel giorno a caruso piovvero offerte da tutte la parti del mondo: mille, duemila, tremila, diecimila lire a recita!
Nel dicembre 1901 il giovane Enrico caruso, ormai famoso per aver calcato i più importanti palcoscenici del mondo, come La Scala di Milano e quelli delle due Americhe, volle esibirsi nella sua Napoli, davanti al pubblico del glorioso Teatro San Carlo, sicuro che tutti i suoi buoni concittadini stessero ad attenderlo per tributargli l’apoteosi più clamorosa.
In quel tempo però, incontrastato idolo del San Carlo era il tenore Fernando De Lucia, e gli amici di questi, dopo la recita di Elisir d’amore cantata da Caruso, cominciarono ad insinuare che l’opera donizettiana non andava cantata in quel modo: Queste pungenti affermazioni non uscirono mai più dalla mente di Caruso fino a che visse, tanto da fargli esclamare: “Giuro che Napoli non mi sentirà mai più!
Tornerò a Napoli solamente per rivedere la mia cara mamma e per mangiare i vermicelli alle vongole”.
E mantenne per sempre questo giuramento!
Ma Caruso amava perdutamente la sua città. Anche dopo lo sgarbo ricevuto al Teatro San Carlo, spesso diceva: “Se mi apriste il cuore, trovereste inciso un solo nome Napoli”.
Caruso fece il suo debutto al Metropolitan di New York nella serata inaugurale della stagione 1903-1904 in Rigoletto. Quella sera il teatro letteralmente impazzì in un tumulto di grida, battiti di piedi e reiterate richieste di bis.
Caruso cantò al metropolitan ininterrottamente fino al 1920 in ben 607 recite. Fu considerato il tenore più economico nella storia di questo palcoscenico, infatti nonostante i suoi cachet favolosi, per assistere alle sue rappresentazioni il teatro era sempre gremito da una folla disposta a pagare cifre iperboliche, consentendo così incassi vertiginosi.
Enrico Caruso nacque artista, infatti, se non fosse diventato un illustre cantante, sarebbe stato un magnifico disegnatore di professione, visto che era un maestro nell’eseguire caricature. Nel 1918 sposò una ricca americana, Dorothy Beniamjn e l’anno successivo nacque Gloria, la terza sua figlia dopo Rodolfo ed Enrico Jr. avuti dalla precedente unione con Ada Giacchetti.
Ma la felicità dei coniugi durò poco. Ammalatosi gravemente ai polmoni, abbandonò le scene il 24 dicembre 1920 dopo una soffertissima recita di “Ebrea” al metropolitan. Poche ore prima dell’inizio, l’impresario Gatti-Casazza, a Caruso sofferente di dolori atroci al fianco sinistro, consigliò di non cantare: la sua seicentosettesima recita in quel teatro poteva essere rimandata! “Padrone canterò” fu la sua scherzosa risposta. Nel giugno del 1921 Caruso, presagendo l’iimminente fine, volle tornare in Italia e fissò la sua ultima dimora proprio qui a Sorrento, in una suite dello storico Hotel Excelsior Vittoria.
Morì la mattina del 2 agosto nell’Hotel Vesuvio di Napoli.
Aveva solo 48 anni!
Ristorante Museo Caruso
Via S.Antonino, 12 - 80067 Sorrento (Na) - Italy - P.IVA IT0123456789
Tel. +39 081 8073156 - Fax +39 081 8072899
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